L'evento – inanticipabile – e la struttura del vivente

1« In che, nel vostro lavoro, Derrida fa questione ? Come vi è implicato, ingaggiato ? Come il suo pensiero è al lavoro nel vostro ? Vale a dire : in quale misura continua a farvi problema ? ». Tale è la questione impegnativa cui rispondere. Ma quando un debito è profondo è sempre difficile districarlo, isolarlo, dire : è qui, solo qui, consiste in questo, in nient’altro che questo, poiché esso è all’opera anche al di là di quello che sappiamo o possiamo dire. E tuttavia, accettando la consegna e pensando alle inattualità di Derrida, soprattutto alla sua presenza intempestiva nel mio lavoro, mi arrischierò a schematizzare drasticamente, sospinto a ciò dalla esiguità dello spazio a disposizione, riducendo a tre le questioni o movenze derridiane che mi accompagnano nell’esercizio dell’interrogazione e del pensiero.

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2Anzitutto, il rigore. Nello stile disseminato e disseminante, da capogiro – soprattutto se si considerano le opere degli ultimi anni –, dei testi derridiani, è sempre ben visibile la ricerca implacabile della argomentazione, la passione del rigore filosofico. Qua e là Derrida ha richiamato l’attenzione dei suoi interlocutori sul suo « iper-razionalismo » e anche « iper- o ultra-trascendentalismo [1] ». Niente è di più distante dal pensiero derridiano di un presunto abbandono del canone e della problematica filosofici a favore di un trasferimento esonerante nella letteratura, in una narrazione libera dalla preoccupazione della verità e dall’impegno della dimostrazione. In modi e contesti diversi Derrida ha ribadito che si trattava di « essere più che filosofici senza smettere di essere filosofici [2] », che bisognava « continuare a spiegarsi con la filosofia [3] ». È uno strano destino quello cui spesso è andata incontro la riflessione derridiana : sotto il titolo di decostruzione si sono assommati valori antisistemici e disgregativi, come se in essa si trattasse semplicemente di distruggere qualcosa, di negare istericamente o capricciosamente il « padre », il « logos », la « metafisica », il « sistema » eccetera, e di snidare o inventariare delle impossibilità, delle aporie. No, si è sempre trattato, casomai, di mostrare l’impossibilità o l’aporia come legge. Quello di Derrida è infatti un pensiero che non ha mai smesso di interrogarsi sulle legalità dell’esperienza, sulle condizioni di (im)possibilità, incarnando l’ambizione più tipica della filosofia, proprio nel mentre tentava di fare i conti con essa, con i suoi presupposti, le sue impalcature. L’istanza eidetica e trascendentale della fenomenologia è stata perciò tanto messa in questione quanto mantenuta, come si evince dal costante riferimento alla « legge » (della différance, dell’impossibile, del double bind) e alla « struttura » – universale o generale – dell’esperienza, che accompagna da un capo all’altro l’itinerario derridiano. È questo « essere più che filosofici senza smettere di essere filosofici » che mi è sempre interessato di Derrida e mi pare indispensabile oggi, per non cadere nell’ideologia dell’alternativa (all’Occidente, al logos), in una delle tante forme di irrazionalismo, che alla fine lasciano tutto lo spazio del razionale e del politico alla tecno-scienza e ai dispositivi della globalizzazione.

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3Un modo di « essere più che filosofici senza smettere di essere filosofici » è il concetto di « evento ». Ecco il secondo filo che mi lega a Derrida, l’evento, vale a dire ciò che sorprende ed eccede ogni previsione, ogni attesa, ogni precomprensione : imprevisto, imprevedibile, inanticipabile, indeducibile, senza precedenti, « impossibile ». Con l’evento Derrida cerca di pensare la singolarità, l’altro, l’alterità, il « fuori », la novità radicale, l’imprevedibilità, in altri termini, il resto di ogni trascendentalismo e di ogni teleologia, ciò che non può essere ricondotto a condizioni di possibilità e che resiste a ogni tentativo di totalizzazione, che non può essere anticipato e risolto come termine di uno sviluppo. Attraverso l’evento si tratta di pensare il punto di consumazione o di rottura tanto di un trascendentalismo di stile kantiano, husserliano e perfino heideggeriano (l’evento è irriducibile a condizioni di possibilità, lacera l’orizzonte di attesa e di comprensione), quanto di un teleologismo di stile hegeliano (occorre, per intenderci, disporsi a pensare una quercia senza ghianda, che non sia semplicemente lo sviluppo di una ghianda, il termine di un cammino previsto e prevedibile). Si tratta però di pensare tale punto di consumazione senza cadere in una mistica dell’esteriorità assoluta, da una parte, o in un radicalismo positivista o empirista, dall’altra. Per esempio, nel contesto in cui ci troviamo, occorre lavorare al limite della fenomenologia husserliana e dell’ermeneutica heideggeriana senza rinunciare all’istanza della fenomenologia e dell’ermeneutica, ossia senza imboccare la strada di nuovi realismi, speculativi o minimalisti che siano. Si tratta di non cedere al sogno del « fuori », come se ci si potesse installare al di qua o al di là di un orizzonte di manifestatività e dunque di una relazione al « dativo » della manifestazione (un’apertura comprendente-interpretante). È per questo che Derrida ha fin dall’inizio sostenuto che un pensiero dell’evento « non può rompere con una fenomenologia trascendentale più di quanto non possa ridurvisi [4] ».

4Diversamente da Heidegger, per il quale l’evento va inteso in una essenziale distanza da ciò che comunemente si intende con avvenimento, per Derrida l’evento ha a che fare proprio con ciò che viene o con chi viene, dunque con l’ordine dell’avvenimento, del venire e della venuta : è qualcosa o qualcuno che accade che può meritare o non meritare il nome di evento ; è di una « venuta » che possiamo esclamare o non esclamare : « Senza precedenti ! ». Ciò in un primo tempo indurrebbe a distinguere una venuta dall’altra, un evento da un non-evento. Se tuttavia l’evenemenzialità dell’evento è indicata, come abbiamo accennato, dalla singolarità e dall’alterità, dall’imprevedibilità e dall’inappropriabilità, è possibile spingersi oltre. « Dopo tutto, ogni volta che qualche cosa accade e anche nella più banale esperienza quotidiana, c’è una parte di evento e di singolare imprevedibilità : ogni istante segna un evento, come anche tutto ciò che è “altro”, ogni nascita e morte, anche le più dolci e naturali [5] ». L’evento è un altro nome per quanto, in ciò che accade, non si riesce né a ridurre né a disconoscere. Si tratterebbe di pensare, insomma, che il carattere di evento non sia da riservare a questo o a quello, ma, in un senso certamente diverso e tuttavia profondamente comune, da estendere a tutto ciò che accade, ci viene incontro, ad-viene, e-viene : a tutto il « reale », a cominciare dall’altro, dal tu. Ciò non significa portare l’evento dalla parte del reale (assecondando una direzione ontologico-realistica), ma portare il reale dalla parte dell’evento, pensare il reale come evento, perciò l’evenemenzialità del e nel reale, una evenemenzialità che non è nulla di « reale », non è una cosa o un dato, ma l’irriducibile di e in ogni « realtà », ciò che la rende inappropriabile e imprevedibile anche se è lì davanti a me (si tratti di un ente presente, di me stesso o di un altro, di un tu).

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5Ora, per rimarcare il regime della correlazione dal quale non si può e non è sensato uscire, domandiamoci : quando e per chi vi è evento ? qual è il « dativo » dell’evento ? Rispondiamo in prima battuta : vi è evento solo per un vivente autoimmune. Ecco il terzo elemento, intimamente connesso al precedente, del mio debito : un certo pensiero del vivente, necessariamente implicato in un pensiero dell’evento. Derrida lavora fin dalle prime opere – ne è un esempio Della grammatologia – alla enucleazione di una « struttura del vivente in generale ». Essa prende, nei testi più recenti, il nome di « messianicità senza messianismo » o di « autoimmunità ». Vale a dire, l’esposizione all’evento, all’altro, alla alterità più irriducibilmente eterogenea, che può essere anche il peggio o la morte, è la condizione quasi-trascendentale di (im)possibilità dell’esistenza, poiché essa è ciò che la rende al tempo stesso possibile e impossibile, che la apre al suo avvenire e la minaccia, in un double bind che non può essere neutralizzato. Ma vi è una messianicità senza messianismo, una messianicità desertica, ossia una protenzione (« originaria ») senza prefigurazione (in base al continuum delle ritenzioni), una vulnerabilità disarmata all’evento, all’altro, anche per l’animale, che attende senza attendere ciò che può arrivare, che d’altronde può essere la morte. L’esposizione alla morte è la condizione di (im)possibilità della vita, umana e non umana : tenersi al riparo dall’altro – fosse anche la morte – è infatti tenersi al riparo dalla vita.

6È il problema dell’auto-immunità. L’io vivente è auto-immune, deve esserlo, è chiamato a esserlo, cioè deve abbassare le proprie difese, mantenersi in una certa vulnerabilità, difendersi dalla propria difesa dall’altro, esponendosi anche al rischio del peggio, della contaminazione e della morte : per non morire, per essere vivo, per continuare a vivere, nell’unico modo possibile, come vivente-morente (o sopra-vivente). Una perfetta immunità sarebbe infatti una morte anticipata. Perché vi sia avvenire, evento, perché la strada della vita non sia sbarrata, è necessario allora che vi sia auto-immunità. Senza questa vulnerabilità all’arrivo dell’altro, prima ancora che io sappia se ciò che sta per venire è buono o cattivo, più nulla (ci) accadrebbe, non vi sarebbe evento. Nel patologico, il processo di autoimmunizzazione, si rende visibile – per Derrida – una struttura universale del vivente.

7Si profila così uno strano « a priori universale della correlazione » : diversamente dalla concezione bergsoniano-deleuziana (in cui l’evento esautora o assorbe il soggetto), vi è evento solo per un vivente-morente, auto-immune, cioè solo là dove vi è una protenzione esposta e aperta all’altro, all’evento, all’arrivante assoluto, una attesa senza preparazione e prefigurazione, la cui chiusura sarebbe la fine stessa della vita ; e vi è vivente solo là dove vi è o vi può essere evento, sorpresa, inappropriabilità, alterità, visitazione, venuta imprevedibile dell’altro. Un simile pensiero del vivente, occorrerebbe mostrarlo, si colloca a una decisa distanza tanto da un vitalismo trionfante e costruttivo – da una concezione vitalistica e biologistica della vita, che ne enfatizza la forza e la potenza, perfino nei suoi risvolti tanatologici – e da una metafisica dell’impersonale, quanto da un nichilismo mortifero, tenendo aperta una necessaria interrogazione « a venire ».

Notes

  • [1]
    J. Derrida, Voyous. Deux essais sur la raison, Éditions Galilée, Paris 2003 ; trad. it. di L. Odello, Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Cortina, Milano 2003, p. 214.
  • [2]
    J. Derrida – M. Ferraris, Il gusto del segreto, tr. it. di M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 6.
  • [3]
    Colloquio con Jacques Derrida, a cura di M. Telmon, in « Paradosso », 2/1992, p. 194.
  • [4]
    J. Derrida, De la grammatologie, Éditions de Minuit, Paris 1967 ; trad. it. di R. Balzarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Della grammatologia,
  • [5]
    J. Derrida, « Auto-immunités, suicides réels et symboliques», in J. Derrida, J. Habermas, Le « concept » du 11 septembre. Dialogues à New York (octobre-décembre 2001), avec G. Borradori, Paris, Éditions Galilée, 2003 ; trad. it. « Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida» in G. Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 99.